Politica e Valori



La repubblica,nell'antichità, aveva due grandi collanti: la religiosità, fonte di tutte le certezze, attraverso soprattutto quegli augures che erano i buoni auspici degli Dei nei confronti delle scelte della polis, e i valori – ciò a cui dovevano aspirare le persone dabbene (probri): rem (le sostanze), fides (il credito), honos (gli onori legati al ruolo specialmente politico), gratia (il favore, la “gloria”). Tutto questo assicurava "la dignitas": una tensione verso l’alto coinvolgente, attraverso i mezzi di comunicazione dell’epoca, per la formazione di un’unica comunità che tendeva verso l’alto grazie al ruolo dell’esempio virtuoso.( da: Il Politico.it)

domenica 11 dicembre 2011

QUEL PATTO COSTITUZIONALE

Tutti sanno che la Costituzione Italianafu il frutto di un patto; di un compromesso politico tra le culture Liberale,Cattolica e Socialista. Come le altre Costituzioni novecentesche Essa non si limitò a sancire i diritti inalienabili dei cittadini ed a delineare le strutture istituzionali dello Stato Italiano ma assunse, nel suo impianto, i cosiddetti diritti sociali (diritto al lavoro, all'istruzione,all'assistenza ed alla garanzia di eguali possibilità di promozione sociale per tutti i cittadini).


Un compromesso politico certamente sul piano dei diritti democratici quali la libertà, sia individuale che collettiva, ed i limiti invalicabili della autorità statale riguardo agli spazi aperti all'azione dei cittadini e dei soggetti sociali.
Un compromesso costituzionale poi e di ampio respiro culturale e politico dal quale far emergere un modello capace di coniugare la democraticità con la socialità, dando così vita ad uno Stato nel quale non ci doveva essere alcun condizionamento all'effettiva dialettica parlamentare che consentisse di giungere alla "decisione" attraverso la "discussione".

Peccato che la classe politica,designata alla guida dello Stato,abbia da quel momento disatteso quel modello di governance e generato quel peccato originale della Repubblica e cioè la frattura tra modello costituzionale ed assetto governante,perdurante fino ai giorni nostri e con alterne vicende ed ulteriori compromessi più o meno storici.
Un Parlamento divenuto luogo di scontro tra i partiti piuttosto che sede di confronto di "eletti" del popolo dotati di un mandato di rappresentanza,una volta diretto e specifico.
Sarebbe lungo sviluppare attraverso le varie chiavi epistemologiche l'analisi di un percorso caratterizzato da profonde anomalie del sistema politico nostrano, fino a giungere all'attuale situazione che vede rivisitare in modo regressivo le componenti valoriali di quell'originario e fondante Patto.

Insomma la verità che si percepisce, al di là dell'oggettivo disastro accumulato dalla classe politica alternatasi al governo del Paese ed a cui bisogna rimediare,è che un un ordinamento che si ispira al liberismo economico non può che agire ignorando le domande di strati della società che siano in contrasto con il suo pensiero. E la Costituzione italiana lo si capisce benissimo è una Costituzione per sua natura anticapitalistica.
Occorre tener in conto che l'elemento di equilibrio di quel trinomio fondante che
è costituito proprio dal "socialismo"per una economia possibile prevede in se,come elemento escludente ante litteram,l'accumulazione e la predazione capitalistica da chiunque gestita.



Una economia finanziaria che «regola» i processi di arricchimento di ristretti settori della società e realizza, finché è possibile, il mantenimento di una parvenza di adeguato tenore di vita alla parte politicamente più rappresentata della società, che si lascerà così addomesticare al ruolo di guardiana del sistema.
Una economia finanziaria che si basa sulla speculazione, sulla ricchezza nominale delle Borse, sui prodotti finanziari, sulle fluttuazioni dei mercati, su un sistema di costante prevaricazione esercitato dalle banche su popoli e governi.
Non può essere una strategia che segue una cultura di restaurazione conservatrice lo strumento attraverso cui realizzare un risanamento economico che passi quasi esclusivamente attraverso un sistematico smantellamento dello Stato Sociale fatto di essenziali servizi assistenziali e previdenziali a carico dello Stato con il contributo della fiscalità generale..

sabato 10 dicembre 2011

LO SPIRITO DI UNA NAZIONE

Il cammino dei popoli ripropone momenti unificanti e di lacerazione di sistemi storicamente consolidati che costituiscono la genesi di nuove dimensioni.
Il percorso dello Stato Italiano iniziò proprio con un momento di lacerazione ma finalizzato ad una costruzione.
Il nesso tra "dirigismo", "unificazione" e "sviluppo" permane l'elemento creativo di una unità, in passato di tipo nazionale, e nel nostro tempo con un profilo sovranazionale e con caratteri abbastanza artificiosi rispetto ad una pluralità di identità sia storiche che economiche.
Come allora,la moneta comune è stato il primo passo in campo economico finanziario.
La storia è maestra ed un passo indietro, che ha visto protagonista l'Italia,ci narra che alla unificazione monetaria fece seguito quella tributaria e delle politiche economiche.
E' bene ricordare che il più significativo ed incisivo provvedimento vide la creazione del "debito pubblico nazionale" con il riconoscimento dei debiti pre-unitari,elevati soprattutto nel Centro-Nord, con il quale il Regno d'Italia legò a se i ceti dententori di rendita,del Regno del Sud.


Il percorso della costruzione europea,finalmente realizzata nel 1961 la fase di trasformazione della cooperazione economica e lo sviluppo nella Ocse e la unione monetaria nel 2000, sembra esersi arenato nelle sabbie mobili degli interessi nazionali, duri ad essere superati.
E' questa una storia tutta da scrivere e la cui irruzione sembra non essersi ancora impossessata dell'immaginario degli individui e delle masse europee.

Se è necessario, come ammoniva B.De Jouvenel, avere dei sogni sull'avvenire occorre però che quel processo fantastico possa produrre i suoi effetti nella fattualità storica.


Negli anni recenti non si è forse fatto nulla per analizzare a fondo il significato di un progetto unificante messo in sordina, a livello nazionale, da una classe dirigente portatrice di una illusione populista e particolarista.

La crisi del debito pubblico di alcuni degli Stati della Comunità ha messo in campo la necessità di un agire per il bene del paese in primo luogo e per la salvaguardia di una stabilità più generale che investe il presente ed il futuro.
Questo agire comporta la messa in gioco dell'equilibrio esistenziale individuale e delle rinunce che possono riguardare il superfluo ma anche il necessario.
E' assente una forte spinta di natura morale ed ideale che accetti di cedere qualcosa di personale per un condiviso superiore bene comune.

La storia dei popoli è ricca di esempi del sacrificio degli uni e dei tanti in nome di una Patria.

Uno sguardo alla nostra storia recente, contrassegnata da una retorica di regime,dà il senso ad un agire che si estrinseca in un "dono".
"La Patria ci ha chiesto : cosa potete dare per Me ? e noi Le abbiamo risposto : Ecco i nostri mariti, i nostri figli, ecco il nostro oro ed il nostro amore.
Sappia il mondo che quell'oro è diverso da quello che si compra o si vende o che sta nei forzieri, aggiungo io; non c'è bilancia che possa misurarne il peso e non c'è listino che possa stabilirne il prezzo. Potrebbe valutarlo soltanto la bilancia della giustizia"
sono i concetti espressi da Milly Dandolo, scrittrice di quel periodo storico.
La retorica attuale, timida ed inascoltata nei suoi messaggi sollecitativi non è in grado di far presa sui cittadini a causa della non volontà delle elite di agire con decisione,equità e spirito patriottico sia nazionale che necessariamente europeo per condurre in porto un simile progetto.

domenica 4 dicembre 2011

CRITICA AL NEOLIBERISMO

David Harvey,in un suo libro traccia in maniera incisiva le origini, l’ascesa, e le nuove tendenze del neoliberismo. Ne critica aspramente gli effetti disastrosi, ne affronta le contraddizioni economiche e politiche interne e ne delinea i rischi per il presente e il futuro. Ripercorrendo le ragioni meno ovvie della neoliberalizzazione, sostiene che non è tanto il progetto finalizzato alla riorganizzazione del capitalismo internazionale a prevalere, quanto il progetto di ricostruzione del potere delle élite economiche. Harvey apertamente sostiene che si tratta di lotta di classe, perché “sembra lotta di classe e agisce come lotta di classe” e che quindi come tale occorre trattarla.


Che cos’è il neoliberismo? “Il neoliberismo è in primo luogo una teoria delle pratiche di politica economica secondo la quale il benessere dell’uomo può essere perseguito al meglio liberando le risorse e le capacità imprenditoriali dell’individuo all’interno di una struttura istituzionale caratterizzata da forti diritti di proprietà privata, liberi mercati e libero scambio”. Harvey vede, quindi, nel neoliberismo (neoliberalism) non un nuovo liberalismo (liberalism) in generale, ma una teoria economica distinta che ha sostituito l’embedded liberalism: cioè quella forma di organizzazione economico-politica che prevedeva l’esistenza, accanto ai processi di mercato, di una trama di restrizioni sociali e politiche e l’utilizzo di politiche fiscali e monetarie definite ‘keynesiane’ che limitavano e orientavano la strategia economica e industriale, al fine di raggiungere la piena occupazione, la crescita economica e il benessere dei cittadini. Il neoliberismo è, per l’autore, una teoria di pratiche di politica economica piuttosto che una completa ideologia politica.


Il fatto che il neoliberismo non sia un’ideologia politica non lo esime dal diventare un progetto di lotta di classe. Anzi, la mancanza di una dottrina vera e propria o di una ideologia, come invece erano ,per esempio, comunismo e il socialismo, lo rende più idoneo ad essere accettato e condiviso, perché apparentemente non schierato, neutro.

Tra coloro che tra il 1978 e il 1980 compirono le prime importanti azioni verso una svolta nella storia sociale ed economica del mondo, cita come primo Paul Volcker. Questi, alla guida della Federal Reserve (Fed), cambiò drasticamente la politica monetaria americana,abbandonando le politiche fiscali e monetarie keynesiane a favore di una politica diretta a frenare l’inflazione senza nessun riguardo per le conseguenze sull’occupazione. Ronald Reagan promosse la rivitalizzazione dell’economia americana sostenendo sia le manovre fatte da Volcker al Fed che una serie di politiche finalizzate a contenere i sindacati, deregolamentare l’industria, l’agricoltura e lo sfruttamento delle risorse e a liberare le potenzialità della finanza a livello nazionale e sulla scena mondiale. Teng in Cina fece il primo passo verso la liberalizzazione di un’economia governata da comunisti, adottando il socialismo di mercato al posto della pianificazione centralizzata. Margaret Thatcher con l’obiettivo di riformare l’economia della Gran Bretagna, intraprese una vera e propria rivoluzione nelle politiche fiscali e sociali: contrastò il potere dei sindacati e delle forme di solidarietà sociale che ostacolavano la flessibilità competitiva, ridusse gli impegni del welfare state, privatizzò imprese pubbliche, ridusse le tasse e incoraggiò l’imprenditoria per creare un clima favorevole all’attività economica e agli investimenti stranieri. La stessa Thatcher disse “non esiste la società, esistono solo gli individui di sesso maschile e femminile”aggiungendo in seguito “e le loro famiglie”. Le varie forme di solidarietà sociale quindi sarebbero dovute scomparire per favorire l’individualismo, la proprietà privata, la responsabilità individuale e i valori familiari.

Lo studioso americano analizza perché e come il neoliberismo, nelle sue varie versioni, è diventato la scelta prevalente, volontaria o talvolta indotta, della stragrande maggioranza degli stati, dalle socialdemocrazie occidentali agli stati nati dopo il crollo dell’Unione Sovietica, dal Sudafrica del dopo apartheid alla Cina contemporanea.

Tra le ragioni che portarono al cambiamento sicuramente la crisi dell’accumulazione di capitale occupa un posto di primo piano, per gli effetti sulla disoccupazione crescente, l’accelerazione dell’inflazione e il conseguente diffuso malcontento.

Causa determinante fu la crescita vertiginosa del petrolio OPEC, causata dall’embargo petrolifero del 1973, che diede un enorme potere finanziario agli stati produttori come l’Arabia saudita e il Kuwait. I sauditi dovettero, sotto la minaccia di un intervento militare riclicare i loro petroldollari attraverso le banche di investimento americane, le quali, investirono queste ingenti somme di denaro all’estero: prestiti di capitali ai governi stranieri, in particolare paesi in via di sviluppo. Ma queste operazioni richiedevano la liberalizzazione del credito internazionale e dei mercati finanziari e così il governo statunitense cominciò a sostenere questa strategia a livello globale. La Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale divennero i maggiori sostenitori del ‘fondamentalismo del libero mercato’ e dell’ortodossia neoliberista, attraverso quell’invenzione chiamata aggiustamento strutturale: implementazione di riforme istituzionali come per esempio tagli alle spese pubbliche, privatizzazioni, leggi sul lavoro più flessibli, erano spesso richieste in cambio di una ri-negoziazione del debito.

Ma non solo. “Stava diventando palpabile la minaccia economica alle posizioni delle classi dominanti”. Infatti lavoratori e movimenti sociali urbani, alla metà degli anni settanta, si stavano mobilitando per maggiori riforme e servizi sociali e i partiti socialisti e comunisti in molti stati avevano raggiunto posizioni forti o si apprestavano ad affermarsi in una buona parte dell’Europa e anche nei paesi in via di sviluppo. Così come già argomentato da G.Duménil e D.Lévy, Harvey arriva quindi a sostenere che la neoliberalizzazione è stata fin dall’inizio un progetto mirante alla restaurazione del potere di classe. A sostegno di questa tesi divengono rilevanti anche i dati forniti sulla redistribuzione della crescita e la disuguaglianza sociale. Negli Stati Uniti dopo l’attuazione delle politiche neoliberiste alla fine degli anni settanta, la percentuale del reddito nazionale percepita dall’1% più ricco della popolazione é cresciuto enormemente, fino a raggiungere, alla fine del XX secolo, il 15%. Ancora, il rapporto tra i salari medi dei lavoratori e gli stipendi dei massimi dirigenti di azienda è passato da 1 a 30 nell’anno 1970 a quasi 1 a 500 nel anno 2000.


Quella svolta, che oggi potrebbe apparirci scontata, avvenne, sostiene Harvey, attraverso tentativi ed esperimenti caotici che vennero formulati in una nuova ortodossia solo alla fine degli anni novanta con quello che poi verrà definito il ‘consenso di Washington’. I modelli neoliberisti, americano e inglese, da allora furono considerati la risposta ai problemi globali. L’Europa, il Giappone, il Messico, l’Argentina, la Corea del Sud, l’Indonesia, per citarne solo alcuni, subirono pressioni notevoli affinché intraprendessero la strada del neoliberismo, e la creazione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) che definiva standard e regole per l’interazione nell’economia internazionale, rappresentò l’apice della spinta istituzionale.

Harvey riporta diverse esperienze neoliberiste (Messico, Argentina, Corea del Sud, Svezia, Cina, accanto a quelle della Gran Bretagna e degli Stati Uniti) e rileva che una prima lettura porterebbe a considerare l’irregolarità dello sviluppo come conseguenza di una diversificazione, innovazione e competizione dei diversi modelli di governance, tutti riconducibili al riconoscimento dell’efficacia delle idee neoliberiste a rispondere a crisi finanziarie di un qualche genere, oppure ad un approccio più pragmatico alle riforme dell’apparato statale per incrementare la competitività a livello internazionale. Un’analisi più approfondita farebbe invece pensare che altre sono le forze in campo: quelle di una classe dominante, che si attuano “ sia nella formazione di idee e ideologie, che tramite investimenti nei think-tanks, formazione di tecnocrati e controllo dei media”. Di fatto i sostenitori del neoliberismo occupano oggi posizioni rilevanti nelle università, nei media, nei consigli di amministrazione delle grandi aziende, e degli organi internazionali come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio.

Per quanto riguarda i risultati, Harvey afferma che non vi è stata neanche una vera crescita globale, ma piuttosto una redistribuzione di ricchezza e reddito, che ha generato meccanismi di sviluppo geograficamente disuguali attraverso l’‘accumulazione tramite esproprio’.


Vale la pena elencare alcune di queste pratiche, anche per le pesanti e dirette conseguenze che esse hanno sul territorio e sulla città in particolare. Come ha affermato Jessop. le città e le città-regioni acquisiscono un’importanza notevole nel progetto neoliberista: sono considerate i motori della crescita economica e i centri dell’innovazione sociale, politica ed economica e giocano un ruolo importante nel promuovere e consolidare la competitività internazionale, ma, per converso, anche nel favorire lo sviluppo di una pluralità di comunità autorganizzate come dispositivo di sostegno per le inadeguatezze del meccanismo di mercato

Le principali pratiche poste in essere possono essere così riassunte:
1) La redistribuzione intenzionale di ricchezze dai paesi poveri a quelli ricchi attraverso la gestione e manipolazione delle crisi sullo scenario mondiale: per esempio le varie crisi debitorie dei molti paesi in via di sviluppo.
2) Il trasferimento di risorse dal pubblico al privato: privatizzazione e mercificazione di risorse sino ad ora rimaste pubbliche al solo scopo di aprire nuovi campi all’accumulazione di capitale. Dalla privatizzazione dei servizi pubblici (acqua, pensioni, assistenza sanitaria) e delle istituzioni pubbliche (università, ospedali, istituti di ricerca, prigioni) al crescente depauperamento delle ricchezze ambientali comuni e dell’habitat. Dalla mercificazione delle forme culturali alla cancellazione delle strutture di regolamentazione per proteggere la forza lavoro e l’ambiente. Il trasferimento a pochi, attraverso manipolazioni (churning, stock options e hedge funds) di immense ricchezze, a spese di molti: la finanziarizzazione, contrassegnata sempre più da uno stile speculativo e predatorio.



Il trasferimento da parte dello stato del flusso di beni e capitali dalle classi più basse a quelle più alte, soprattutto attraverso le privatizzazioni e i tagli delle spese statali che sostenevano il salario sociale. Per esempio la privatizzazione del patrimonio edilizio pubblico in Inghilterra sembrò portare ad un beneficio immediato alle classi inferiori, in quanto i beneficiari potevano diventare proprietari a costi relativamente bassi, accrescendo così la loro ricchezza e benessere. Ma a trasferimento compiuto subentrò la speculazione immobiliare, soprattutto nelle aree centrali e più importanti, convincendo o costringendo popolazioni a basso reddito a spostarsi verso la periferia, trasformando complessi di residenza sociale in centri residenziali signorili. Lo stesso sta succedendo a Pechino, dove in nome della rigenerazione urbanistica ( e delle olimpiadi) di gran parte della Pechino antica, moltissime famiglie (si parla di circa un milione di persone) sono costrette a lasciare le loro case.

Riguardo all’ambiente le politiche degli stati neoliberisti sono state e sono discontinue e instabili: se Reagan era indifferente alla questione ambientale, la Thatcher invece prese a cuore il problema e considerò con serietà la minaccia del surriscaldamento globale. Benchè la crescita e l’influenza dei movimenti ambientalisti abbiano contribuito a contenere danni e aumentare la sensibilità ai problemi, Harvey afferma che “il bilancio complessivo delle conseguenze della neoliberalizzazione sull’ambiente è certamente negativo”. Fa notare che i due principali responsabili della crescita delle emissioni di biossido di carbonio in questi ultimi anni sono gli Stati Uniti e la Cina, ovvero i due paesi che rappresentano le fucine dell’economia globale. Il fabbisogno energetico apre inoltre un’altra serie di problemi che ha ovvie ramificazioni geografiche soprattutto sullo sfruttamento delle risorse naturali e conseguenze geopolitiche, soprattutto nell’Africa subsahariana dove la Cina sta orientandosi alla ricerca di approvvigionamenti petroliferi.

La neoliberalizzazione ha un primato negativo sugli effetti dello sfruttamento delle risorse naturali: la preferenza dei rapporti contrattuali di breve durata spinge i produttori a ricavare il più possibile indipendentemente dalle conseguenze ambientali e produttive a lungo termine, con il conseguente depauperamento di sistemi ecologici, dalle riserve ittiche alle foreste. La spinta per accrescere le esportazioni e ad accordare diritti di proprietà privata nei paesi in via di sviluppo, soprattutto attraverso i “programmi di aggiustamento strutturale”, ha creato enormi danni ai patrimoni boschivi, spesso irreparabili.

Molti permangono i paradossi e le contraddizioni insiti nella teoria neoliberista: la questione del potere monopolistico spesso prodotto dalla competizione stessa; i difetti del mercato che emergono quando individui o imprese non pagano tutti i costi che spetterebbero loro esternalizzando quindi gli impegni passivi, l’accesso ineguale, di fatto, alle informazioni da parte di coloro che agiscono sul mercato; l’innovazione tecnologica che può diventare destabilizzante se non controproducente; la tensione tra individualismo e desiderio di una vita collettiva gratificante che conduce alla costruzione di forti istituzioni collettive come i sindacati.

Quando queste tensioni si manifestano, spesso la spinta alla ricostruzione del potere di classe distorce se non addirittura capovolge la prassi neoliberista, producendo contraddizione notevoli tra la teoria e la prassi effettiva, tra gli scopi dichiarati (il benessere di tutti) e i suoi risultati effettivi.

La sfiducia dichiarata nei confronti del potere statale mal si concilia con l’impegno politico a favore di ideali di libertà individuale, il diritto alla proprietà privata e delle libertà delle imprese commerciali, in quanto il rispetto dei contratti e dei diritti individuali richiedono il monopolio da parte dello stato degli strumenti di coercizione per la tutela di queste libertà.

Mentre da una parte si enfatizza il meccanismo virtuoso della competizione, in realtà si aumenta il consolidamento del potere oligopolistico o monopolistico.

La spinta verso il mercato, il consumismo e la trasformazione di ogni cosa in merce può produrre incoerenza sociale; e l’eliminazione di tutte le forme di solidarietà sociale, lascia un vuoto pericoloso. Ecco allora che ‘nuove’ forme di solidarietà e associazionismo sono promosse e ricostruite, spesso su basi diverse dalle precedenti: religiose, morali o si assiste al ritorno di vecchie forme politiche come il nazionalismo, fascismo, etc.

Il pensiero neoliberista, osserva Harvey, adottò come fondamentali i valori di dignità e libertà individuali. La parola ‘libertà’ è stata utilizzata e strumentalizzata, per il suo valore universalmente riconosciuto, per raggiungere il consenso popolare sulle pratiche neoliberiste. Sostenendo che i valori della libertà sono garantiti dalla libertà di mercato e di scambio, quindi minacciati non solo dal fascismo, dal comunismo o dalle dittature, ma anche da tutte quelle forme interventiste che sostituivano al libero arbitrio degli individui le decisioni e il benessere collettivo, fu costruita una cultura populista basata sul mercato, fatta di consumismo differenziato e libertarismo individuale. Usando le parole di K.Polanyi, Harvey rilegge l’esperienza neoliberista: essa “significa piena libertà per coloro che non hanno bisogno di vedere accrescere i propri redditi, il proprio tempo libero e la propria sicurezza, e una vera e propria carenza di libertà per la gente che invano potrebbe cercare di fare uso dei propri diritti democratici per trovare protezione dal potere di quanti detengono le proprietà”. Aggiungendo che “trent’anni di libertà neoliberiste, dopo tutto, non hanno solo restaurato il potere di una classe capitalista assai ben definita, anche prodotto immense concentrazioni di potere aziendale nei campi dell’energia, dei media, dei prodotti farmaceutici, dei trasporti e del commercio al dettaglio” .

Malgrado si parli molto di libertà, come sottolinea Harvey, manca veramente un dibattito serio su quale tra le varie concezioni divergenti di libertà sia la più adatta al nostro tempo. E in questa aspra critica l’autore non risparmia neppure Amartya Sen e il suo famoso testo Lo sviluppo è libertà , che “pur essendo di gran lunga il contributo più significativo degli ultimi anni alla discussione, avviluppa nel mantello delle interazioni del libero mercato importanti diritti sociali e politici. Senza un mercato di tipo liberale, sembra dire Sen, nessuna delle altre libertà può funzionare.

Molti statunitensi credono che le libertà neoliberiste sostenute da Bush siano le uniche esistenti; e “coloro che sono pienamente inseriti nell’inesorabile logica del mercato e delle sue esigenze scoprono che c’è poco tempo o poco spazio per esplorare le potenzialità di emancipazione, al di fuori di ciò che viene venduto come avventura creativa, svago e spettacolo. […] il regno delle libertà si restringe davanti all’orribile logica e alla vuota intensità delle relazioni di mercato” .

E’ in questo contesto che emergono culture di opposizione, sia interne che esterne al sistema di mercato, che si oppongono all’etica di mercato e alle pratiche neoliberiste, ma Harvey sostiene che ancor prima di formulare un progetto di società futura occorre avviare un processo politico che consenta davvero di distinguere le alternative possibili e reali.

Per chiudere con le parole di Harvey. “La prassi neoliberista ha comportato una “ingente distruzione creativa, non solo di strutture e poteri istituzionali preesistenti […] ma anche nell’ambito della divisione del lavoro, delle relazioni sociali, del welfare, degli assetti tecnologici, degli stili di vita e di pensiero, delle attività riproduttive, dell’attaccamento alla propria terra e degli atteggiamenti affettivi. Facendo dello scambio di mercato un’etica in sé”.


Ecco che allora sta a noi, come individui e come collettività, come cittadini e come professionisti, ricostruire una società comune e interrogarci di nuovo, dopo anni di disinteresse sul concetto di giustizia sociale all’interno della società contemporanea, e sulle tensioni tra particolarismo e universalismo, tra libertà individuali e benessere collettivo, ancor più inasprite dal neoliberismo.


Boniburini Ilaria
(Estratto dal sito web eddiburg.it)

sabato 3 dicembre 2011

EGEMONIE ED EQUILIBRI

Ad ogni caduta di Wall Street e dei mercati è finita l’epoca di una egemonia.
Gli Stati Uniti da anni vivono in una contraddizione schizofrenica dai tempi della elezione a Presidente di Ronald Reagan, con il suo programma fondato su due punti: meno tasse, più mercato, cioè meno Stato. Questo programma portò enormi vantaggi a breve termine ma, con la riduzione delle imposte sul reddito,la deregolamentazione dei mercati ed il progressivo aumento delle spese, in primo luogo militari, fece saltare l’equilibrio del sistema. Nel breve termine si realizzò un aumento dell’occupazione, un aumento dei consumi interni americani, un aumento degli investimenti. Il prezzo pagato si rivelò disastroso: un aumento delle spese militari, con effetti negativi sull’ordine internazionale e sulla militarizzazione della società statunitense, e un aumento vertiginoso del debito estero.


Oggi la deregulation è in crisi; più mercato, in una situazione di squilibrio, può significare più speculazione. Il rischio è di passare da eccessi liberistici a tentazioni protezionistiche. Gli squilibri dell’economia mondiale rischiano di travolgere le realizzazioni degli ultimi anni: rimangono irrisolti i problemi del deficit americano, il surplus giapponese e cinese, l’indebitamento del terzo Mondo, la decrescita in Europa, la crisi dell’Euro.

Il premio Nobel dell’economia Robert Solow ammonì che il paese leader dell’Occidente non poteva continuare a finanziare i consumi interni indebitandosi a livello internazionale in modo sempre più insostenibile. Ma quella amministrazione non previde né una riduzione delle spese né un incremento delle imposte, se non in misura del tutto inadeguata alla reale dimensione dello squilibrio.



Saltò così la capacità degli Stati Uniti di garantire uno sviluppo equilibrato a livello mondiale. Non solo il governo di Washington non fu in grado di sostenere misure che risolvessero i problemi dell’economia mondiale, ma addirittura li aggravò non assumendosi le responsabilità che spettano ad un Paese che detiene una leadership.

L’amministrazione Reagan rimase convinta che occorresse sostenere comunque le leggi di mercato. Lo Stato sociale fu così rimesso in discussione, anche per le classi più bisognose. L’esito interno rischiò di aumentare le tensioni sociali, alimentate da una politica che toglieva ai poveri per dare ai ricchi. Ad Oggi, malgrado la presidenza democratica di Obama, nulla sembra essere cambiato.La crisi dei subprime ed il fallimento della Lehman Brothers con lo scandalo (non se ne parla in relazione alla crisi delle Banche europee)dei titoli tossici frutto di una ingegnieria finanziaria a dir poco criminale,è stata la cartina di tornasole di quella politica dissennata.


L’esito mondiale poteva essere un aumento delle tensioni internazionali, per il rifiuto di una politica che fa pagare anche a popolazioni e sistemi esterni il finanziamento delle spese imperiali e dei consumi interni del popolo più ricco del mondo.

Il nuovo ordine politico-economico internazionale, con la creazione dell’Euro doveva dare una soluzione ai problemi con delle regole del gioco eguali per tutti. In primo luogo, un nuovo ordine monetario internazionale, fondato sulla stabilità monetaria e sulla cooperazione. Un sistema monetario forte e stabile necessario per sostenere l’integrazione e lo sviluppo equilibrato;obiettivo era quello di togliere a qualsiasi paese l’ambizione di scaricare sul resto del mondo i propri squilibri con il cattivo uso della propria moneta.


Negli Stati Uniti l’emendamento Gramm Rudman fece emergere che esisteva nel congresso USA una coscienza critica, convinta della necessità di una buona gestione monetaria ed economica, che garantisse l’equilibrio interno ed internazionale.
Anche le successive proposte del Segretario del Tesoro americano Baker a favore di una moneta internazionale stabile, legata all’oro e alle materie prime,era espressione di una consapevolezza circa gli obiettivi da perseguire, anche se, pure in quel caso, mancava una precisa coscienza degli strumenti necessari.
L’obiettivo prioritario da perseguire, doveva essere la formazione di un nuovo ordine monetario internazionale fondato sulla cooperazione fra dollaro, yen ed Euro.


Il fatto è che, al di là delle necessarie correzioni macro-economiche, gli avvenimenti attuali mettono in luce la fine di un’epoca, quella dell’egemonia statunitense. Negli anni ’30 la grande crisi fu generata dalla fine dell’egemonia inglese e dall’incapacità degli Stati Uniti di assumere le responsabilità che loro competevano. Oggi la nuova grande crisi non è stata evitata per l’incapacità dell’Europa e dei paesi più sviluppati del mondo di prendersi ciascuno la proprie responsabilità.

DEMOCRAZIA E MERCATO: I MECCANISMI CORRETTIVI

La crisi morde i governi studiano piani e la politica continua nel suo teatrino ipocrita.
In Italia il Governo promette equità, il Governatore BCE concorda e l'Episcopato sollecita.Ma le ipotesi fattuali dicono tutt'altro.
Sembra che i "decision maker" attuali non siano altro che gli epigoni di chi li ha preceduti, se non nella forma , presumibilmente nella sostanza.
Anche i popoli di mezza Europa si ritrovano a sperimentare l'impoverimento e l'umiliazione nel non essere tenuti in nessun conto da una massa di speculatori senza princìpi ne regole che sono l'anima del dispotismo dei mercati.


I Mercati!Dimensione magica che riduce l'essenza dei popoli a delle semplici lettere, che vengono attribuite con arroganza e sprezzo da "agenzie" a servizio
degli interessi dei grandi capitali.
Armi letali di potenze fino ad oggi egemoniche ed ormai in declino in uno spazio economico espanso a livello globale ?


In questi momenti risultano cruciali il ruolo dello Stato e della Politica ed i rapporti tra produzione e finanza , sviluppo e diseguaglianze sociali.
La risposta consiste nella imposizione di rimedi che, alla fine devono sviluppare i loro effetti nei soliti piani di austerità, nei quali la regola principale è il "rigore".
Questo rigore, però, sembra non riguardare altro che i sacrifici da imporre ai cittadini ed in perenne bisticcio con l'equità.
I Media ci allertano sulle inefficienze e sulle manchevolezze nella amministrazione del bene pubblico, proprietà di coloro che sono chiamati a pagare un pesante tributo al risanamento.
Corruzione e tangenti; liquidazioni milionarie, malgrado tutto, ad intoccabili di stato e sodali.


Leggevo dei miliardi di euro ( sedici è il valore stimato delle bande televisive residuate dalle donazioni precedenti)che potrebbero essere messi nel paniere per il necessario pareggio di bilancio. Non se ne sente parlare se non da parte di qualche attento giornalista.Gli esperti? Sembrano impersonare i "dictator rei gerendae causa di Romana memoria,impegnati a raschiare il fondo del barile : lavoro, welfare e famiglie. E tutto il resto ? Solo provvedimenti bandiera?

mercoledì 30 novembre 2011

EPITAFFIO DEL NEOLIBERISMO


Un giusto epitaffio ?
Mai come in questo momento storico, sono stati messi in discussione il modello di sviluppo complessivo ed i corrispondenti assetti sociali.
Fino ad ora la capacità di garantire una certa dose di giustizia sociale è stato uno degli indicatori privilegiati dello stato di salute del rapporto tra Stato e cittadini.
Anni di mancata "rivoluzione liberale", una politica ed un tipo di governance, di fatto hanno impedito le riforme innovatrici che avrebbero potuto essere efficaci, quali misure stabilizzatrici dell'economia per il raggiungimento di una equità fiscale e di un giusto rapporto tra spesa sociale e crescita economica.
Se si guarda alla grande crisi del settore delle piccole e medie imprese, alla quasi inesistenza di investimenti nell'innovazione ed alla compressione dei consumi ci si da il perchè della massiccia riduzione dell'occupazione , trasformata in lavoro precario e del reale peggioramento complessivo delle condizioni di vita della generalità delle persone.
La regia per la soluzione dei problemi cogenti e l'avvio di riforme che vanno ad incidere profondamente sullo stile di vita e sugli orizzonti esistenziali è stata affidata ad un teem,titolare dei requisiti della competenza e che concretizza la sua dimensione di vero e proprio "potere degli esperti" nell'azione di governo.
Quel che mi lascia diffidente è ciò che non traspare, celato sicuramente, dietro un atteggiamento negoziale e pragmatico come metodo di problem solving e che, dalle prime anticipazioni solutive rivela il preludio ad un annichilimento del ruolo sociale della mano pubblica.
L'attacco al sistema pensionistico e del welfare in generale ne è a mio avviso un evidente indicatore.




Non si ancora sentito un ben che minimo accenno a provvedimenti che abbiano come fine la crescita.
E' condivisibile che un organismo che manifesti una febbre da cavallo abbisogni di ricette che ne neutralizzino la virulenza ma è anche del tutto evidente che una adeguata cura ricostituente debba essere contestualmente necessaria.

domenica 27 novembre 2011

IL PIANO

Tutti sono impegnati nella formulazione di "Piani" per uscire dalla crisi.
La mettiamo in provocazione ironica ?
Ecco!
Mi si perdonerà per questo :

Dal Web

All'inizio c'era "il Piano"
E poi vennero i presupposti
E i presupposti erano senza forma
E il Piano era senza sostanza
E l'oscurità scese sulle facce dei dipendenti
E i dipendenti parlarono tra loro dicendo :
"E' una vera stronzata e puzza maledettamente"
E i dipendenti andarono dai loro superiori e dissero :
"E' un secchio di cacca e non riusciamo a sopportarne la puzza"
E i superiori andarono dai loro manager e dissero :
"E' un contenitore di rifiuti organici e l'odore è talmente forte che nessuno riesce a sopportarlo"
E i manager andarono dai loro direttori e dissero:
"E' un sacco di fertilizzante e nessuno può resistere all'odore"
E i direttori parlarono tra loro dicendo :
"Contiene ciò che aiuta le piante a crescere ed è molto potente " e lo riferirono al Vice Presidente
E il Vice Presidente andò dal Presidente e gli disse :
"Questo nuovo piano promuoverà attivamente la crescita ed il vigore della Società con effetti poderosi"
E il Presidente guardò il Piano e vide che era buono
E il Piano divenne politica aziendale
Ed è per questo che l'Azienda si trova nella cacca fino al collo

SOLTANTO UNA TEMPESTA MONETARIA ?

Non lo so! Mi sembra tanto una riproposizione di una fase di ristrutturazione del capitalismo avente come scopo il rovesciamento delle priorita di rapporti tra Stato e cittadini.
Si è rotto il teorema della crescita economica senza limiti e condizionata soltanto dai cicli produttivi.

Le variabili dirompenti sono diverse :

La crescita abnorme del debito pubblico dei paesi occidentali,insostenibile se non per brevi periodì ;

Il costo del lavoro che la globalizzazione dei mercati ha reso elemento basilare per sostenere una competizione sana e corretta e che si scontra con i comportamenti delle economie dei paesi emergenti in materia di regole di mercato e di diritti che determinano una concorrenza a dir poco sleale;

La inadeguatezza o il superamento degli indici economici del modello ideale determinato dai trattati di Maastricht come base per la nascita della moneta unica ed in seguito dell'Unione economica europea.


Le conseguenze prevedibili, ma che sono già materia di decisioni governative sono nell'ordine di una drastica riduzione delle attese sociali con l'inposizione di un mutamento consistente,rispetto alle conquiste ,in materia di garanzie e di disparità sociale ormai nella tradizione di un paese.
L'Italia affronta questa crisi nelle situazioni peggiori che fanno presagire un ripensamento dello stile di vita e di sacrifici da sopportare.



La barca della moneta unica beccheggia tra le correnti di un monetarismo e dottrine sulla massima liberalizzazione di matrice anglo-sassone e di una inclinazione "uber alles" di una Germania che, Bismarckianamente, avoca a se il ruolo di "terra di mezzo" degli equilibri mitteleuropei.

WILL DO WHAT THEY WANT ?

Mi pare superfluo sottolineare come, nel caso della governance di un Paese, la qualificazione di Tecnocratico appare"more solito" alquanto ambigua se la si deve riferire alla effettiva identità funzionale dei protagonisti chiamati ad un incarico così complesso.
Il richiamare il profilo della competenza ad essenziale fondamento del "potere degli esperti" fino ad ora utilizzata come mera consulenza a beneficio degli organi politici, invece, ad essere un vero e proprio elemento sostitutivo nella funzione di decision-making sulla cosa pubblica,non può che significare una implicita presa d'atto della incompetenza e della rinuncia totale (voluta o subita) alla discrezionalità propria della sfera politica.
La domanda che sorge spontanea,e che mi son posto in un precedente post,è se sia sufficiente la competenza per necessitare decisioni sui fini dell'azione sociale quando proprio questi ultimi chiamano in causa opzioni di valori.
Nelle società complesse, come la nostra, le arene in cui si sviluppa la dinamica socio-politica,e nel cui ambito occorre prendere le decisioni, sono molteplici.


Ci si può riferire all'area parlamentare,a quella partitica,a quella finanziaria e della comunicazione di massa come ambiti problematici del nostro paese.
La necessità di un "governo dell'economia"così stringente,quali sviluppi potrà condurre sul piano politico e sociale?
Così può prendere corpo una ipotesi neo corporativa che nei momenti di crisi può, alla fine, istituzionalizzare la rappresentanza di taluni interessi che possono portare ad un unicum i processi di rappresentanza e di decisione.
Una navigazione molto difficile in mezzo ai flutti che Parlamenti e Mercato vanno
rappresentando per chi deve tenere diritta una barra soggetta a tante sollecitazioni




Siamo veramente ad un punto così critico da dover fare gli hausaufgaben per dirla alla Merkel( i compiti a casa )?

venerdì 25 novembre 2011

CONTEMPORANEITA' E FUTURO

Mai come in questo momento storico la connessione tra "contemporaneità " e "futuro" è apparsa così problematica. Ciò si deve,forse,al fatto che viviamo un presente che
sembra dinamicizzarsi in geometrie variabili, dove i mezzi di comunicazione di massa esercitano un forte potere di rifrazione con la trasmissione ,in tempo reale, di notizie,annunci,messaggi che riguardano la realtà sociale che ci circonda ma che è anche inserita in un più generale sistema interdipendente di relazioni.
Da ciò derivano svariati effetti e problemi ,posto che le risorse economico- finanziarie tendono a condizionare le gerarchie di potere.
Tutto ciò rende difficile un esercizio della prognosi che voglia cimentarsi nel prevedere una topografia di ciò che potrà delinersi in futuro.
Un futuro nel quale,in misura diversa, è presumibile possano aver sbocco le correnti in movimento che agitano il mondo globale.



E'dunque il tempo delle teorizzazioni con un forte impatto sul nesso tra contemporaneo e posterità.
Un esercizio che la storia moderna delle utopie ci tramanda con il "manifesto" di Karl Marx e Friedrich Engels, con il quale si auspicò la proprietà collettiva dei mezzi di produzione; di Lenin che teorizzò la estinzione degli apparati di governo della Società; di Oswald Spengler che presagì il "letale materialismo edonistico" quale fattore causale del declino dell'Occidente.
Utopie, frutto di aspirazioni della ragione, mai divenute realtà ma capaci di mettere in moto forze imponenti che hanno cambiato il corso della storia dei popoli.
Si può ben dire che il socialismo della "seconda internazionale" promosse la tutela del lavoro salariato ed alfabetizzò milioni di operai e contadini, così come il comunismo sovietico assorbì lo Stato nei congegni di una grandissima macchina burocratica, anche se sotto il controllo di un partito ed infine come il lamento Spengleriano sulle mollezze della società capitalistica generò il delirio guerriero del Terzo Reich.
Oggi, un avvenire che canti nuove utopie appare silente e le opere e gli affanni degli uomini che in esse hanno sancito il loro credo,sono definitivamente custodite nel ripostiglio della storia.


Nel presente, la interdipendenza nelle relazioni economiche internazionali(ad esempio la globalizzazione dei mercati finanziari; la transnazionalizzazione delle grandi imprese e la fruizione dell'ambiente globale) rimangono difficili da governare, là dove si tratta di dare soluzioni accettabili e che non si dimostrino fragili alla prova dei fatti.

giovedì 24 novembre 2011

LA FINE DEL COMPROMESSO SOCIALDEMOCRATICO ?

E' chiaro ormai ai più che, alla luce di quanto sta accadendo,ci si avvia alla definizione di un mutamento radicale dell'immaginario collettivo sperimentato e coincidente con la massima espansione in quasi tutti i paesi occidentali delle politiche di Welfare State.


Un mutamento iniziato già negli anni ottanta con la adozione dell'immagine del Mercato Globale e delle singolarità, avulse dai legami sociali.
La crisi viene così decodificata anche in virtù del deperimento di quell'insieme di valori, di pratiche istituzionali che avevano consentito , sulla base di quel compromesso socialdemocratico forme di intervento, con la spesa pubblica, volte ad assicurare prestazioni e sicurezze per fasce numerose di cittadini.
L'attuale declino lascia privo di sostanza un vasto mondo di soggetti e di cultura.
Man mano che la ideologia liberista, con la cosidetta liberalizzazione generalizzata è andata distruggendo gli strumenti di potere economico e di legittimazione morale che avevano consentito di alimentare la solidarietà sociale con la spesa pubblica, si è andato compiendo il declino della storia dei diritti sociali raggiunti dai "movimenti" del trascorso secolo.


Viene di chiedersi se la crisi dello Stato Sociale sia la conseguenza di una realizzazione dei suoi obiettivi che più oltre non possono andare in una fase di decrescita economica, o sia da coniugare con l'efficacia "politica" della contro offensiva neo-liberista nella ridotta arena del conflitto redistributivo,tutto interno, e la natura competitiva delle economie degli Stati ormai parte del mercato globale.

sabato 19 novembre 2011

LA SFIDA TECNOCRATICA

Un "direttorio tecnico"assume la governance del Paese. Motivato dal bisogno di un governo dell'economia in grado di affrontare e risolvere,al meglio,i problemi che stanno mettendo a rischio la stabilità economica e sociale interna e della Comunità della quale l'Italia è parte essenziale.



Un aspetto nuovo o quanto meno, prima d'ora, marginale come essenza del Kratos riverberata nella decision-making sulla cosa pubblica.
Si assiste ad un vero e proprio reclutamento e designazione alle massime cariche pubbliche che,sospesa la forma elettiva, tipica della Democrazia, si traduce in vera e propria "cooptazione", tipica delle forme oligarchiche.



Il tutto nella speranza che il capisaldo dell'elemento tecnocratico,cioè la "competenza", possa accompagnare l'efficienza, necessarie per riempire il vuoto creatosi a seguito del declino delle ideologie politiche,della incapacità della stessa "Politica" rivelatasi come regno della incompetenza , della corruzione e dei particolarismi.



Il rischio che si avverte è quello che la"Tecnocrazia" espunga la politicità dalle decisioni relative all'azione pubblica; il dubbio rinvia alla "summa divisio" tra politica come regno dei fini e la competenza come regno dei mezzi.
La domanda quindi è : Colui cui spetta l'opzione ultima circa i fini avrà la capacità di comportarsi politicamente, posto che dovrebbe essere la politica ad "ordinare" la sintesi ?
Occorre tenere in considerazione che il gioco non si limita a muoversi sul terreno economico e dei mezzi dell'azione sociale ma , in maniera surrettizia, entra oltre che nel regno dei fini,anche in quello dei valori.



In definitiva il rischio è che si realizzi una interferenza complessiva sul piano politico che diventi funzionale alla affermazione di interessi, orientamenti e sistemi di valore non condivisi.

mercoledì 16 novembre 2011

LE NUOVE DIMENSIONI ECONOMICO-ISTITUZIONALI

Un orizzonte che sembra disvelare in maniera sempre più chiara il cammino, irto di asperità e conflitti,della democrazia; quella che il mondo occidentale ha faticosamente costruito lungo i secoli a partire dal Demos della antica Grecia.
Un ultimo tratto: quello nel quale l'analisi dei meccanismi di funzionamento del mercato e delle sue implicazioni socio-economiche avevano trovato l'approdo in un riformismo  ispirato al principio di solidarietà e di programmazione, con i suoi apparati di mediazione affinchè il benessere collettivo e la democrazia reale fossero tutelati dal libero gioco del Mercato.


Un profilo, quindi, di democrazia partecipativa quale contenitore dell'aspetto politico e dell'aspetto economico contemperati.
Un risveglio ad una enfasi di breve periodo  se si considera il quadro istituzionale che si è andato trasformando, via via,con il tramonto  delle ideologie socialdemocratiche e le politiche di deregulation e neo individualistiche, a favore  di una riespansione dei mercati e delle spinte privatistiche.
Uno degli elementi caratterizzanti il nuovo scenario che ci vedrà soggetti passivi è il completamento dello smantellamento dello Stato Sociale con conseguente restituzione al Mercato di risorse e spazi  che rendono egemone il criterio del calcolo economico nel sistema delle relazioni sociali : l'uomo come "uomo economico"
ed i suoi bisogni , economicamente misurabili.


Un trend giustificato dalle esigenze di risanamento  del deficit pubblico, in una prima fase e dalla attuale sopravvenuta ed inderogabile necessità di azzeramento del debito sovrano degli Stati  che fanno parte di quella organizzazione sovranazionale a carattere regionale che è costituita dalla U.E. ( A.U. Europeo/1987 e Trattato di Maastricht/1992 ), con tutto ciò che comporta in termini di vincoli.


Ma la sensazione è che, al di là della determinazione di semplici misure di efficienza del mercato a garanzia del
perseguimento della crescita economica e di riforma e riqualificazione dei meccanismi della macchina statuale, il contesto economico- istituzionale  che si va delineando ,si configuri come dimensione unica e cioè quella dell'economico nella quale lo spazio del politico appare destinato ad essere definitivamente  orfano della dimensione solidaristica.
La speranza è che un  antiumanesimo radicale non realizzi una svolta epistemologica  che interessi la teoria sociale, liberata da ogni impaccio soggettivistico ed antropologico e che consideri " l'uomo non come parte del sistema sociale ma come ambiente problematico del sistema". Sarebbe sicuramente una  fuga dalla complessità, per cui  le persone sarebbero ridotte ad equivalenti funzionali nel  sistema  e mera contingenza  all'interno della strategia messa a disposizione dal sistema stesso.

domenica 13 novembre 2011

POLITICA E MERCATO

Soltanto sette giorni fa: un tentativo, da uomo della strada, di dare una spiegazione ai vari fattori all'origine di   quanto sta maturando con la crisi sistemica che  coinvolge l'occidente industrializzato, capitalista, oltre che l'economia globale. Una conferma ,se ce ne fosse bisogno, di quanto siano suscettibili di radicali cambiamenti  e forse anche di dissoluzione , i paradigmi che hanno costituito l'ossatura  epistemologica dei meccanismi economico- sociali e politici dentro i quali si è sviluppata la convivenza . Poi la pausa mentale e l'attenzione, quasi spasmodica,allo tsunami di eventi che in Italia, più che altrove, ha scompigliato la  già problematica situazione che i giochi della politica nostrana non era stata capace di affrontare in maniera concreta e solutiva.
Quella nostrana..., una  classe politica piccola , provinciale e miope; incapace di guardare oltre la siepe del proprio orticello ed incapace di percepire o recepire le istanze dei cittadini  e divenuta ormai corpo estraneo nella realtà sociale.


Questa incapacità ha autodequalificato la politica e la sua possibilità di  creare e gestire una governance degna di un paese democratico e sviluppato , dando origine alla riedizione di una "Unverschamte  Ubervachung" (direbbero i Tedeschi) "vergognosa supervisione permanente"  che detta indirizzo politico , metodi e tempi  nel governo dell'economia nazionale.


Si parla di necessità urgente di abbattimento del debito pubblico  per mezzo di un programma dettato da entità monetarie ed istituzioni sovranazionali , ma ricordo anche che il nostro Paese possiede la 3° maggiore riserva di oro del mondo e cioè 2.451,80 tonnellate. I risparmi degli italiani non ho modo, ne capacità di quantificarli. Il sistema pensionistico è certificato in equilibrio fino al 2050. Infine ,i fondamentali non sono da buttar via.Ma di cosa si sta parlando!
Sul banco deglli imputati il pluridecennale "Debito Sovrano" !!
Sento montare un impulso fortissimo di indignazione se penso a ciò che la "politica" non ha evitato nel passato recente e parlo del 1992 quando Moodys declassò i BOT  e si dovettero sacrificare le riserve valutarie ( ben 48miliadi di $ ); fu svalutata la £ italiana del 30% e si privatizzarono, svendendoli, Enti di Stato come ENI, ENEL,TELECOM. e,"dulcis in fundo", si misero le mani su tutti i conti bancari dei risparmiatori italiani.
Quando i mercati fanno il gioco pesante è la governance del paese ad essere  chiamata alla correità!
Oggi si rischia, con queste ricette neo-liberiste, per risolvere la crisi, di assecondare il processo di smantellamento dello stato sociale e di frammentazione del lavoro  anzicchè evitare il tracollo del monte salari per pilotare una politica sui redditi  che eviti pericolosi avvitamenti deflazionistici.
Non ricordo chi , ebbe a dire che "la legge di mercato" è la cosa più violenta e stupida che si possa immaginare, al pari del debito pubblico che è per sua natura inestinguibile".


sabato 5 novembre 2011

CRISI SISTEMICHE E DEMOCRAZIA

La critica al "capitalismo"ed al "mercato", nell'aspetto fondamentalista della sua ideologia ,viene giudicata figlia di una appartenenza  storicamente tramontata e consegnata alla storia delle ideologie radicali.
Non è così. Le ricorrenti crisi sistemiche ( e specifichiamo che quella attuale non è una crisi dentro il sistema ma una crisi del sistema )che hanno segnato, e continuano a farlo,il mondo economico e sociale con un continuum di perdite di valore  e di stabilità sociale  non possono che indurre ogni persona, dotata di buon senso e di un minimo di cultura politico- economica, ad esercitare  il diritto ad una anamnesi e ad una prognosi sicuramente  non in senso preditttivo.

Quest'ultimo aspetto investe piuttosto la sfera di competenza e di azione degli economisti e  degli uomini di stato per valutare le correnti in movimento ed i loro presumibili sbocchi.
La situazione attuale però pare dimostrare quanto queste capacità valutative siano state mal riposte, specie in alcuni Stati dove si è costruita una autocrazia legalmente organizzata ma con una sua tragica fragilità generatrice, nei momenti di crisi, di faide quasi bizantine tra lobbies e gruppi che guardano, alcuni a quella fonte come unica titolare di autorità e di potere, altri a considerare non più utile ai propri interessi il continuare a considerarla tale.

Molte le analisi ed i  responsi, contrastanti tra loro, su  quale tipo di sistema sia in crisi e perchè.
Alcune correnti di pensiero non intendono mettere sotto accusa  il sistema capitalistico  poichè capace di creare ricchezza e quindi benessere, che però  dovrebbero essere più equamente  redistribuiti; nemmeno il Mercato di per se, ma  quello che si è andato affermando con i suoi meccanismi senza regole e completamente  in zona franca rispetto al poter pubblico nella sua facoltà di intervenire nel governo dell'economia.

E' consapevolezza di oggi che sono i mercati ad inglobare i governi  e non il contrario, e quando i governi perdono di autorevolezza e legittimazione  possono essere le prime vittime  di un Mercato privo di regole.
Mi viene alla mente  il famoso "laissez faire - laissez passer" con il quale gli esponenti fisiocratici del XVII° secolo diedero l'avvio al liberismo economico ed al libero mercato,  in quel momento storico e vi trovo molta analogia con il momento attuale, figlio dello stesso concetto  calato nella complessità del mondo moderno e globalizzato.

Il nuovo slogan  nel momdo globale e deregolamentato, vedi caso, è costituito dalla competitività che caratterizza un mercato in lotta per la sopravvivenza, nella quale tutti gli obiettivi di equità sociale vengono disconosciuti e calpestati . Ma sappiamo, dalle teorizzazioni Keynessiane,che"ogni società è libera di darsi la distribuzione del reddito che più si attaglia alla propria cultura,essendovi in essa un
margine  abbastanza ampio nel quale il fattore determinante non è tanto la legge economica, quanto le abitudini e pratiche sociali ed il comportamento dell'opinione pubblica".
A ben vedere , questo dettame  sembra calzare bene con quanto avvenuto negli ultimi decenni  nei quali ,sia gli indirizzi politici che il governo dell'economia ,abbiano tenuto conto  dei margini disponibili in quel senso per non governare seriamente l'economia al fine di mantenere il consenso popolare a qualsiasi prezzo.
Il prezzo lo si sta pagando eccome! Sia in termini di crescita che di stabilità.
Ne consegue che la attuale cultura economica riconosce legittimo che le sorti dell'industria  dipendano dai sacrifici del salariati e degli stipendiati, poichè la loro stessa sorte dipende dalla sopravvivenza di quelle imprese ed è quindi nel loro stesso interesse  accettare le riduzioni di salario ,i profitti elevati, le diseguaglianze crescenti.
In questo panorama si sta inserendo un nuovo fattore : la democrazia limitata ad opera di Istituzioni Sovranazionali di governo dell'economia.


  Queste si, dovevano produrre quelle regole necessarie ad una corretta gestione dei mercati e della finanza internazionale ma  sono invece impegnate in una interferenza e supplenza  decisionale che tende ad imporre ciò che dovrebbe essere deciso ed applicato, a livello nazionale,con il diritto alla propria sovranità, da persone pubbliche affidabili, con competenze specifiche in rapporto ai bisogni  generali e  sensibili al senso dello Stato  ed al primato del bene comune.

martedì 1 novembre 2011

DEMOCRAZIA E CAPITALISMO

Le notizie che , quotidianamente, attraverso i media ed i giornali  sollecitano i nostri pensieri e le nostre riflessioni  suscitano nelle menti di noi semplici cittadini scenari preoccupanti su come potrà essere il nostro futuro prossimo.
Fatti e situazioni che prospettano nuove realtà che vanno a comporsi nel nostro immaginario e che potranno stravolgere la vita sociale del nostro paese e non solo.
Una governance  che sollecita cambiamenti paradigmatici  da concretizzarsi con provvedimenti legislativi;ciò comporterà  nuove macerie sociali  che potrebbero chiudere il processo di una narrazione tra le più  incisive nella storia contemporanea.
Mi rifierisco a quel percorso storico ( come si può farne a meno! ) che ha visto protagonisti popoli ed elite, con l'intervento dei governi,nella costruzione di quello che è stato definito lo "Stato del Benessere" o per meglio dire il "Welfare State"
Un percorso tutto novecentesco , iniziato con la creazione della sicurezza sociale  nella Germania di Bismarck sul finire dell'ottocento, passando per lo stato sociale marxista leninista ; dalle politiche sociali del fascismo in Italia e  dal "welfare state" inglese del secondo dopoguerra ( Clement Attlee ) che fu ispirato alle idee del liberale Lord Beveridge e non dissimile  da quanto realizzato dalle democrazie dei paesi del"Nord".La ricerca  di una necessaria e voluta compatibilità  tra socialismo possibile ed economia di mercato.
La si potrebbe definire l'ultima" età dell'oro "  caratterizzata dal veloce mutamento dei costumi, da una rivoluzione tecnologica, generatrice  di nuovi stimoli e di una nuova ristrutturazione sociale figlia  delle nuove istanze.
Fu quella ristrutturazione sociale che vide il "lavoro" aprire un primo spazio ed una crepa nello assolutismo censorio dell'epoca precedente.
Fu attraverso il lavoro che emerse una nuova classe, certamente non figlia di rivoluzioni violente e portatrice di una sua autonomia  economica , con un suo dinamismo generatore  di uno spazio politico di partecipazione.



Un percorso che attraversa le menti come un film epico e che ha potuto intitolarsi "Democrazia Moderna", lontana mille miglia da quella della Grecia di Pericle, con il suo elitarismo.
Ma nella democrazia moderna sono i paesi industrializzati , in crisi per effetto della globalizzazione dei mercati, ad essere gli attori principali. Il prevalere del liberismo, del corporativismo e del potere finanziario  forte ,tanto forte da dettare le sue regole alla politica, sta decretando la morte di tutti i paradigmi  validi fino a qualche tempo fa.
Il panorama che si va delineando è quello di una struttura sociale e produttiva messa  in discussione e che  prende atto della perdita di valore del fattore lavoro asieme all'emergere di nuove povertà.
Il "lavoro" non più un valore fondante ; l'emergere di nuove povertà, impensabili fino a qualche tempo fa.
Si può ben considerare come questi due fattori stiano lacerando quel rapporto, fondamentale per la democrazia,costituito dal legame tra il valore lavoro e quello dei diritti.
L'aspetto più visibile è stato quello della precarizzazione del lavoro, che contiene in se il senso del suo impoverimento e che riporta alla memoria  periodi nei quali esso  era soltanto "sudore" e vita stentata in cambio di una misera mercede.

di fronte ai disvalori di cui sopra si  erge trionfante un nuovo valore : il profitto fine a se stesso.
Ma se è vero che senza  il capitalismo ed il mercato non ci può essere democrazia è anche vero che una, non dico perfetta, ma buona democrazia deve avere in se quegli anticorpi capaci di osteggiare efficacemente le sue tendenze peggiori  ed essere in grado di esprimere e tutelare  gli interessi diffusi in modo da bilanciare quelli forti.
La  nostra società "democratica"  ha all'interno delle sue dinamiche il contrapporsi di due tendenze valoriali : quella egualitaria e quell'altra  elitaria che tende a definirsi con la gestione oligarchica del potere. In questo braccio di ferro alla prima la sua forza proviene proprio dal "lavoro", cioè dal suo valore sociale ed economico;alla seconda essa proviene dal suo efficientismo  nel creare ricchezza.
Questo è il percorso ideale che ha portato alla formulazione dell'artico 1 della nostra Costituzione.
E' questo il solco che avrebbe dovuto essere preservato in questo che è uno dei momenti più difficili  della vita economica di ogni paese,
specie quando i governi sembrano perdere la forza  politica necessaria a mettere sotto controllo la situazione e sembrano incapaci di acquistare la consapevolezza  necessaria per gestire una inversione di tendenza.

Quello che vedo  è forse una incapacità di affrontare una grande sfida, tentando di fuggire all'indietro anzicchè guardare avanti,  attingendo dalla grande narrazione del passato  con i suoi assetti di civiltà in cui sono fioriti dei valori divenuti criteri di valutazione preminenti della realtà sociale.
Per tuttto ciò occorrerebbe il coraggio di correggere il grave squilibrio indotto da quel potente meccanismo di dominio e di trasformazione che è regolato dal semplice principio dell'egoismo "privato"; quello che spinge al massimo arricchimento dei singoli.